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venerdì

Dell’amore



27 giugno 2012 - La dimora del tempo sospeso


Il corpo antigrazioso

Arte e Amore. Arte e Passione. Arte e Corpo. Il tema del corpo ha un ruolo chiave: è oggetto d’amore, strumento di piacere, evocatore di seduzione, oggetto feticcio. Da sempre il corpo è stato al centro dell’immaginazione degli artisti, ma dalla fine dell’Ottocento è stato oggetto di una vera e propria trasfigurazione: da corpi levigati, perfetti, espressione di armonia e di proporzione, si è arrivati a rappresentare spesso corpi scarnificati, rattrappiti, negati, luogo di fuga della materia, corpi sfatti, brutalmente gettati su una tela come pezzi di carne sul bancone di un macellaio, sintesi di un malessere esistenziale presago di morte e di corruzione. Non è vero che anima e corpo vivono vite separate: la carne si fa specchio di un disagio interiore che ha le sue radici profonde nella perdita dell’io. Questo spiega la violenza visiva evidente nella rappresentazione di corpi disumanizzati, smembrati, deformati, in cui non è il pathos che ispirano a renderli attraenti ma una paradossale morbosa curiosità verso il brutto e il deforme. Un’idea che si precisa all’interno di un processo che, irreversibilmente attivato dalle inquietudini di Fine Ottocento e dalle Avanguardie storiche del Primo Novecento, trova manifestazione compiuta nella produzione di alcuni artisti che, conservando il figurativismo, negano l’umanità del soggetto proponendolo con indifferenza, senza alcuna compartecipazione emotiva, fino a distorcere la riconoscibilità delle forme, de-formando espressionisticamente la figura umana, fino a farla sentire “diversa” e repellente.
“La bravura di Freud non è tanto nello stile pittorico, ma nel modo in cui egli si relaziona con la sua modella, nel modo in cui reagisce a lei, in quello che sceglie di raccontare del mondo di lei (ed anche di sé stesso). Le figure ritratte da Freud sono quasi come delle nature morte, come delle pitture di animali, anziché ritratti di esseri umani. I suoi quadri non ci raccontano la personalità delle sue modelle, ma il loro corpo, le loro pose. Inoltre, Freud sembra creare nell’osservatore la sensazione di assistere ad una seduta psicologica, dove c’è un vecchio psicoanalista e la sua paziente”.
(Richard Dorment, Daily Telegraph)
Lo studio di Lucian Freud si moltiplica come in un caleidoscopio nelle sue opere: vediamo modelle distese su lenzuola drappeggiate, modelli nudi appoggiati su teli intrisi di colore secco a coprire il pavimento, appoggiati a pareti che sembrano trasudare umidità, dove a volte, tra l’intonaco corroso, sembra di scorgere dei numeri di telefono sbiaditi, scritti a penna. Nel corpo femminile come in quello maschile l’artista mostra un’attenzione verso il realismo estremo, scegliendo soggetti dal ventre prominente, dalle adiposità evidenti, dalle proporzioni non certamente ideali, in una ricerca morbosa dell’ “antigrazioso” e, attraverso l’epidermide, resa impietosamente dalla luce in tutte le sue imperfezioni, fa affiorare la natura dei suoi personaggi, il pennello nella sua mano diventa un bisturi che taglia, incide, seziona, rivelando ansie, paure, tormenti. Sono opere che disturbano l’osservatore negando le sue aspettative di gratificazione estetica, eppure ci si sente attratti, avvinti da questi corpi esposti nella loro totale nudità, da questi volti che guardano senza vedere. Il corpo non è qui oggetto erotico. Non può esserlo. Gli manca l’avvenenza o l’ammiccamento lubrico della bruttezza. Sono deprivati del sesso, per così dire, perché il sesso è animalità, è vita, è pulsare di vene e arterie, anche se gli organi sessuali sono esibiti in totale indifferenza.


Nel dipinto “And the Bridegroom” (2001) si vede una coppia che giace su un letto l’uno accanto all’altra (Leight Bovery, artista e performer australiano, e la sua compagna Nicola Bateman). La donna ha un corpo esile, quasi da ragazzina, dalla pelle chiara, in contrasto con l’ imponenza e il colore scuro della pelle dell’uomo, molto più massiccio e più vecchio di lei. Lei dorme rannicchiata, in posizione fetale, rivolta verso l’osservatore, con un braccio ripiegato davanti al viso e la massa dei lunghi capelli castani che scendono dal letto. Il volto sembra serenamente inconsapevole. Un’immagine di abbandono totale, di infanzia, di tenerezza, di vulnerabilità. Non un corpo femminile evocativo di sessualità, benché il contesto sia quello di un letto sfatto dove la coppia ha finito da poco di fare l’amore. Il suo compagno riposa supino, a gambe aperte, con il sesso esposto e una gamba piegata. Una posizione che evoca forza, potenza, presa di possesso dello spazio (il letto è quasi interamente riempito dal suo corpo pesante). La testa è girata dalla parte opposta. Tra i due c’è solo una contiguità fisica (il corpo di lei tocca con i piedi quello di lui). Sono due realtà, due mondi separati, che il caso ha voluto in quel letto, tra quelle lenzuola. L’intimità che intuiamo esserci stata ha lasciato spazio all’attitudine naturale del sonno e all’incapacità della condivisione anche quando i corpi si sfiorano inconsapevoli. L’immagine è di assoluta verità e naturalezza, ma con la stessa assoluta verità e naturalezza di una natura morta, dove le cose aspettano mute la mano dell’uomo a scomporre e ricomporre un ordine prestabilito. “…La verità contiene un elemento di rivelazione. Se una cosa è vera, fa un qualcosa in più che impressionare per il solo fatto di essere così’” (L. Freud). Il corpo ridotto a cosa, la persona ridotta ad oggetto, un oggetto di cui tutto si vede senza nemmeno aprirlo ma, come oggetto, a-sessuato e privo di anima. L’indagine analitica dell’artista, spinta al parossismo della visione lenticolare, fa emergere superfici a colpi di pennello, delinea corrugamenti, cavità, la grana dell’epidermide con il sottostante reticolo di capillari, fa scintillare le mucose dei sessi esposti con scaglie di colore acceso, ma senza ombra di erotismo. Ciò che si vede, “è”: è il grado zero del senso, svincolato dalla sua coscienza.


…la mia pittura è soprattutto di istinto. E’ un istinto, un’intuizione che mi spinge a dipingere la carne dell’uomo come se si spandesse fuori dal corpo, come se fosse la propria ombra. Io la vedo così. L’istinto è mescolato alla vita. Io cerco di avvicinare il più possibile a me l’oggetto, e amo questo confronto con la carne, questa autentica escoriazione della vita allo stato bruto.
(F.Bacon)
La dissoluzione del corpo si manifesta in un processo di scorticamento nell’opera di Francis Bacon: il corpo è violentato, esposto oscenamente nel suo interno anatomico, senza più segreti, ridotto ad una urlante componente animale che nega apparentemente la natura umana. Le foto del periodo ritraggono il lavoro febbrile dell’artista in uno studio caotico, pieno di carte, foto, ritagli di giornale, tele appena iniziate, stracci intrisi di materia pittorica, latte di colore su tutto il pavimento, strisciate di colore sui muri. Un ambiente saturo di caos dove pure l’artista ritrova un raccoglimento claustrale, una sorta di depurazione dal cancro dell’anima sul bianco puro della tela: ecco che allora si delineano campiture di colore nette, regolari, a comporre un ordine euclideo che racchiude in un contenitore geometrico dal sapore quattrocentesco le figure: Un ordine nel disordine, dove le cose magicamente ricompongono il loro schema consueto, ritrovano la loro ragione di esistere, fanno sistema. Ma questi contenitori di spazi che sembrano evocare i silenzi di Piero della Francesca, racchiudono le vibrazioni della rabbia, i contorcimenti della passione, il brulicare sotto pelle di invisibili tensioni che disarticolano le figure, le deformano, con tocchi di colore denso. Questa mutazione continua della pelle procede inesorabile come una tabe fino a rendere i corpi a-morfi, disumanizzati quindi nella forma, ma sempre vivi nella manifestazione di un dolore che può essere solo umano. Questo credo sia il motivo di fondo dell’impatto sgradevole e ansiogeno delle opere di Bacon: una forma disfatta in cui non si può evitare di riconoscere la persistenza dell’uomo in quanto dolore e disperazione.
“Io volevo fare una pittura 'clinica' nella mia accezione del termine, capisce? I più grandi oggetti artistici sono 'clinici'… In inglese si dice clinical. Quando adopero la parola 'clinico' voglio indicare il realismo più assoluto. In effetti, è impossibile definirlo, è impossibile parlarne…Una sorta di realismo, ma non necessariamente freddo. Essere 'clinico' non significa essere freddo; è un atteggiamento, è come tagliare qualcosa. Ma è innegabile che in tutto ciò ci sia della freddezza e della distanza. A priori, non ci sono sentimenti. E paradossalmente questo può provocare un enorme sentimento. ”
"Clinico” significa essere il più vicini possibili al realismo , essergli vicini nella parte più profonda di sé. “Clinico” vuol dire esatto e tagliente. Il realismo è qualcosa che sconvolge.
A volte quello che resta di riconoscibile è solo una bocca spalancata, che fa tornare in mente L’Urlo di Munch. Un urlo che anche qui si sente e, anziché definirsi in linee ondeggianti di colori saturi, sembra scaturire dall’interno dei corpi deformandone la sostanza, sbriciolandone la struttura scheletrica, rigonfiandone l’epidermide. Come Freud, anche Bacon utilizza modelli diversi che ritrae nel suo studio, quasi a ricostruire una geografia interiore di atteggiamenti rituali. Come Picasso, anche Bacon distorce l’anatomia, ma non ricostruisce una quarta dimensione risolvendo la forma con campiture piatte, semplicemente insiste con macchie di nero profondo, così da rendere i volumi in maniera inaspettata e inquietante. Nei primi anni Settanta Bacon si dedica alla realizzazione dei Trittici, spiegando che la loro composizione è come quella delle foto segnaletiche. In “Tre studi di figure su letti” (1972) lo sguardo dell’artista coglie da tre angolazioni diverse due figure avvinghiate su un letto. Non è amore o, se c’è, è quell’amore disperato che assume i contorni di una lotta. Il pavimento è scuro, dietro il letto il muro bianco lascia risaltare il groviglio di membra in quello che sembra un abbraccio mortale, un cerchio che chiude, stringe, soffoca, in un infinito di dolore che non trova scioglimento né redenzione.
Le mie figure accoppiate sono state spesso desunte dai lottatori di Muybridge, alcuni dei quali – a meno che non li si guardi al microscopio – sembrano stretti in un amplesso sessuale…”.

Così in “Figura sdraiata” (1969) la modella Henrietta Moraes viene offerta su un letto-vassoio di forma circolare, con il corpo rivolto verso l’osservatore, con le gambe piegate contro un cuscino bianco, divaricate, e la testa girata di lato. Tutto barcolla: il pavimento, il letto che sembra in bilico, la parete rosa incurvata, la lampada gialla che scende sul letto dietro al cuscino. L’anatomia femminile si intravede, ma di questo corpo non è evocata la sensualità, pur essendo offerto all’osservatore in maniera diretta. È la solitudine di un corpo, che gira, rotola, si accartoccia su se stesso come un grande fiore carnoso, dimentico di sé. Nelle due figure su un letto di Love is the devil si arriva alla negazione del colore, i toni si ingrigiscono, le ombre si fanno più dense. Il letto accoglie un amplesso disperato, illuminato da un lenzuolo bianco che contrasta con il pavimento e le pareti nere di una stanza. Sembra di avvertire la disperazione della ricerca dell’altro – e di sé – in questo abbraccio appassionato. Un letto come un’isola galleggiante sul mare della disperazione. Una piccola luce di speranza che salva dalla rabbia del sub-umano.

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