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domenica

La Filosofia del Rifiuto


Aforismi di Ennio Flaiano


Agire come Bartleby lo scrivano. Preferire sempre di no. Non rispondere a inchieste, rifiutare interviste, non firmare manifesti, perché tutto viene utilizzato contro di te, in una società che è chiaramente contro la libertà dell’individuo e favorisce però il malgoverno, la malavita, la mafia, la camorra, la partitocrazia, che ostacola la ricerca scientifica, la cultura, una sana vita universitaria, dominata dalla Burocrazia, dalla polizia, dalla ricerca della menzogna, dalla tribù, dagli stregoni della tribù, dagli arruffoni, dai meridionali scalatori, dai settentrionali discesisti, dai centrali centripeti, dalla Chiesa, dai servi, dai miserabili, dagli avidi di potere a qualsiasi livello, dai convertiti, dagli invertiti, dai reduci, dai mutilati, dagli elettrici, dai gasisti, dagli studenti bocciati, dai pornografi, truffatori, mistificatori, autori ed editori. Rifiutarsi, ma senza specificare la ragione del tuo rifiuto, perché anche questa verrebbe distorta, annessa, utilizzata. Rispondere: no. Non cedere alle lusinghe della televisione. Non farti crescere i capelli, perché questo segno esterno ti classifica e la tua azione può essere neutralizzata in base a questo segno. Non cantare, perché le tue canzoni piacciono e vengono annesse. Non preferire l’amore alla guerra, perché anche l’amore è un invito alla lotta. Non preferire niente. Non adunarti con quelli che la pensano come te, migliaia di no isolati sono più efficaci di milioni di no in gruppo. Ogni gruppo può essere colpito, annesso, utilizzato, strumentalizzato. Alle urne metti la tua scheda bianca sulla quale avrai scritto: No. Sarà un modo segreto di contarci. Un No deve salire dal profondo e spaventare quelli del Sì. I quali si chiederanno che cosa non viene apprezzato nel loro ottimismo.


(Diario degli Errori, 1976)





venerdì

IL MONDO CHE VOGLIAMO


Emergency




Crediamo nella eguaglianza di tutti gli esseri umani a prescindere dalle opinioni, dal sesso, dalla razza, dalla appartenenza etnica, politica, religiosa, dalla loro condizione sociale ed economica.
Ripudiamo la violenza, il terrorismo e la guerra come strumenti per risolvere le contese tra uomini, i popoli e gli stati. vogliamo un mondo basato sulla giustizia sociale, sulla solidarietà, sul rispetto reciproco, sul dialogo, su un’equa distribuzione delle risorse.
Vogliamo un mondo in cui i governi garantiscano l’eguaglianza di base di tutti i membri della società, il diritto alle cure mediche di elevata qualità e gratuite, il diritto a una istruzione pubblica che sviluppi la persona umana e ne arricchisca le conoscenze, il diritto a una libera informazione.
Nel nostro Paese assistiamo invece, da molti anni, alla progressiva e sistematica demolizione di ogni principio di convivenza civile. Una gravissima deriva di barbarie é davanti ai nostri occhi.
In nome di “alleanze internazionali”, la classe politica italiana ha scelto la guerra e l’aggressione di altri Paesi. In nome della “libertà”, la classe politica italiana ha scelto la guerra contro i propri cittadini costruendo un sistema di privilegi, basato sull’esclusione e sulla discriminazione, un sistema di arrogante prevaricazione, di ordinaria corruzione. In nome della “sicurezza”, la classe politica italiana ha scelto la guerra contro chi è venuto in Italia per sopravvivere, incitando all’odio e al razzismo.
E’ questa una democrazia? Solo perché include tecniche elettorali di rappresentatività? Basta che in un Paese si voti perché lo si possa definire “democratico”?
Noi consideriamo democratico un sistema politico che lavori per il bene comune privilegiando nel proprio agire i bisogni dei meno abbienti e dei gruppi sociali più deboli, per migliorare le condizioni di vita, perché si possa essere una società di cittadini.
E’ questo il mondo che vogliamo. Per noi, per tutti noi. Un mondo di eguaglianza.


Homage




[ . . . ] la mia ingenua rabbia non è competitrice.
 




Music by






mercoledì

Ending











[ No Change, I Can Change ]






‘Cause it’s a bittersweet symphony, that's life – Ché è una sinfonia dolciastra, questa è la vita Trying to make ends meetprovando a far quadrare i conti You’re a slave to money then you die – sei schiavo dei soldi e poi muori I’ll take you down the only road I’ve ever been downTi porterò sull’unica strada che io abbia mai percorso You know the one that takes you to the places – lo sai, l'unica che ti porta nei luoghi where all the veins meet yeahdove tutte le vene si incontrano, si
No change, I can change – Nessun cambiamento, io posso cambiare I can change, I can changeIo posso cambiare, io posso cambiare But I’m here in my moldMa io sono qui nella mia forma I am here in my mold – sono qui fermo nella mia muffa But I’m a million different peopleMa io sono un milione di persone diverse from one day to the next – da un giorno all'altro I can’t change my mold – io non posso cambiare il mio calco No, no, no, no, no – No, no, no, no, no
Well I never prayBeh, io non prego mai But tonight I’m on my knees yeah – ma stanotte sono in ginocchio,si I need to hear some sounds that recognize the pain in me, yeahHo bisogno di sentire suoni che mi facciano riconoscere il dolore che c’è in me, si I let the melody shine, let it cleanse my mind, I feel free nowLascio che la mia melodia risplenda, che purifichi la mia mente, mi sento libero, ora But the airwaves are clean and there’s nobody singing to me nowMa le onde radio sono pulite e non c’è nessuno che canti per me,ora
No change, I can change – Nessun cambiamento, io posso cambiare I can change, I can changeIo posso cambiare, io posso cambiare But I’m here in my moldMa io sono qui nella mia forma I am here with my mold – sono qui fermo con la mia muffa And I’m a million different peopleed io sono un milione di persone differenti from one day to the next – da un giorno all'altro I can’t change my mold – io non posso cambiare il mio calco No, no, no, no, no – No, no, no, no, no I can’t change – non posso cambiare I can’t change – non posso cambiare
‘Cause it’s a bittersweet symphony, that's lifeChé è una sinfonia dolciastra, questa è la vita Trying to make ends meettentando di sbarcare il lunario You’re a slave to money then you die – sei schiavo del denaro e poi muori I’ll take you down the only road I’ve ever been downTi porterò sull’unica strada in cui io sia mai sceso You know the one that takes you to the placesLo sai, quella che ti conduce nei luoghi where all the veins meet yeah – dove tutte le vene vengono soddisfatte, si
You know I can change, I can change – Tu sai che io posso cambiare I can change, I can changeIo posso cambiare, io posso cambiare But I’m here in my moldMa io sono qui nella mia forma I am here in my mold – sono qui fermo nella mia muffa And I’m a million different people – e sono un milione di persone differenti from one day to the next – da un giorno all'altro I can’t change my mold – io non posso cambiare la mia forma No, no, no, no, no – No, no, no, no, no
I can’t change my moldIo non posso cambiare il mio calco No, no, no, no, no – No, no, no, no, no I can’t change – non posso cambiare Can’t change my body – non posso cambiare il mio corpo no, no, no – no, no, no
I’ll take you down the only road I’ve ever been downTi porterò sull’unica strada in cui io sia mai sceso I’ll take you down the only road I’ve ever been down – ti porterò sull’unica strada che io abbia mai percorso Been down – percorso Ever been down – mai percorso Ever been down – mai percorso Ever been down – mai percorso Ever been down – mai percorso Have you ever been down?L’hai mai percorsa? Have you’ve ever been down? – l’hai mai percorsa?


 The Verve, Urban Himns, 1997.




lunedì

# Primitivo come una guglia gotica #







Lazzaro un giorno si alzò dalla croce pensando la banalità della  gestazione, un dubbio -
  
Paragonarsi è pericoloso, oltremodo rischioso paragonarsi:
  
E la solitudine fa bene alla salute, risparmia nel vizio, incanta ogni aspettativa . . .

- Perché riempirsi di vuoto, disse!!

E le bestemmie continuarono a prolungare un inutile regalo -
  
Un dono, forse, invalidando il compromesso della Croce . . .

[ Per l'ingratitudine e l'età che manca ]

Mentre l'anonimato resta insoddisfatto nell'abiura . . .


______________________________




* La Dolce Vita di Federico Fellini, 1960. Dialogo tra Marcello e Steiner prima del suicidio . . .



Sunday Morning






domenica

[ Una porta sul buio ]


The 100 best nonfiction books: No 11 – North by Seamus Heaney (1975) |  Books | The Guardian

Scavando




Tra il mio indice e il pollice sta la penna,
salda come una rivoltella.

Sotto la finestra, un rumore graffiante all’affondare della vanga nel terreno ghiaioso:
è mio padre che scava. Guardo da basso,

Finché la sua schiena china tra le
aiuole, si risolleva venti anni indietro,
piegandosi a ritmo attraverso i solchi di patate che interrava.

Il rozzo scarpone accoccolato sulla staffa,
il manico contro l’interno del ginocchio sollevato con fermezza,
sradicava le alte cime, infossando a fondo l’orlo lucente
per spargere le patate nuove che noi raccoglievamo
amandone la fresca durezza tra le mani.

Sapeva bene come usare una vanga, per Dio.
Proprio come il suo vecchio.

Mio nonno tagliava più torba in una giornata
di chiunque altro uomo alla torbiera di Toner.
Una volta gli portai del latte in una bottiglia
turata alla men peggio con un pezzo di carta.
Si raddrizzò per berne e subito riprese
a tagliare e intaccare nettamente,
spalando pesanti zolle, gettandosele alle spalle, andando sempre più a fondo
in cerca di buona torba. Scavando.

Il freddo aroma d’amido nel terriccio, il risucchio
e lo schiaffo della torba umida, i tagli netti della lama
nelle radici vive, mi risvegliano la memoria.
Ma non ho una vanga per imitare uomini come loro.

Tra il mio indice e pollice
sta salda la penna.
Scaverò con quella.





[Traduzione Erminia Passannanti in GLI UOMINI SONO UNA BEFFA DEGLI ANGELI - POESIA BRITANNICA CONTEMPORANEA a cura e per la traduzione di Erminia Passannanti: Introduzione di Blake Morrison, Ripostes, Salerno-Roma, 1993.]




Digging


 

Between my finger and my thumb
The squat pen rests; as snug as a gun.

Under my window a clean rasping sound
When the spade sinks into gravelly ground:
My father, digging. I look down

Till his straining rump among the flowerbeds
Bends low, comes up twenty years away
Stooping in rhythm through potato drills
Where he was digging.

The coarse boot nestled on the lug, the shaft
Against the inside knee was levered firmly.
He rooted out tall tops, buried the bright edge deep
To scatter new potatoes that we picked
Loving their cool hardness in our hands.

By God, the old man could handle a spade,
Just like his old man.

My grandfather could cut more turf in a day
Than any other man on Toner's bog.
Once I carried him milk in a bottle
Corked sloppily with paper. He straightened up
To drink it, then fell to right away
Nicking and slicing neatly, heaving sods
Over his shoulder, digging down and down
For the good turf. Digging.

The cold smell of potato mold, the squelch and slap
Of soggy peat, the curt cuts of an edge
Through living roots awaken in my head.
But I've no spade to follow men like them.

Between my finger and my thumb
The squat pen rests.
I'll dig with it.



 
di







sabato

Celan e l’esperienza dell’impossibile

da La dimora del tempo sospeso


Paul Celan, 1920 - 1970.


 



 
È noto che Paul Celan ha avuto per lungo tempo la fama di essere un poeta difficile, quasi impenetrabile. La sua replica a coloro che gli muovevano tale accusa non era la più adatta a conciliarseli: «Al giorno d’oggi è di voga rinfacciare alla Poesia la sua “oscurità”. […] Mi consentano di riportare un detto di Pascal, un detto che lessi in Lev Šestov qualche tempo fa: Ne nous reprochez pas le manque de clarté puisque nous en faisons profession! – Questa, credo, è la – seppur non congenita – oscurità che è propria della Poesia, in vista di un incontro che muove da una distanza o estraneità che essa stessa, forse, ha inteso progettare»(1).
     Ciò che rende difficile l’interpretazione dei suoi testi consiste nel lavoro svolto sul piano del pensiero e su quello della lingua tedesca, che si trova dunque ad essere sensibilmente modificata. Le tecniche stilistiche di Celan prevedono fra l’altro un costante e fulmineo passaggio da un’immagine all’altra, dall’astratto al concreto e viceversa, la coniazione di neologismi, un uso anomalo degli «a capo», che a volte spezzano in due la parola, e dei titoli, spesso incorporati nel primo verso del testo ed evidenziati graficamente con l’impiego delle maiuscole. A ciò si aggiunge il recupero di vocaboli arcaici o di tecnicismi: come ricorda Moshe Kahn, Celan «leggeva con predilezione dizionari antichi, come per esempio quello dei fratelli Grimm, oppure dizionari tecnici e botanici, dai quali estraeva un ricco materiale di parole. Così incontriamo parole come per esempio Eulenflucht (l’ora del levar delle civette) o chymisch (chymico) che nella lingua tedesca erano dimenticate da più di duecento anni, oppure termini tecnici come Meermühle (mulino di mare), Strahlenwind (vento irradiante) o Laufkatze (carrello in corsa). Naturalmente, tutte queste parole si trovano nelle poesie di Celan prima per quello che indicano; ma per il modo in cui vengono usate, oltrepassano al tempo stesso il loro significato originale»(2).

| Della superficie delle cose |


Wallace Stevens - Wikipedia

da Harmonium di Wallace Stevens
Traduzione di Simone Burratti



I
Nella mia stanza, il mondo è oltre la mia comprensione.
Ma quando passeggio vedo che esso consiste di due o tre colline e una nuvola.

II
Dal balcone ispeziono l’aria gialla,
Leggendo dove ho scritto:
“La primavera è come una donzella che si spoglia.”

III
L’albero d’oro è blu.
Il cantore si è tirato il mantello sopra il capo.
La luna è fra le pieghe del mantello.




 Letteratura e realtà







La Revancha del Tango






  1. Queremos Paz
  2. Época
  3. Chunga's Revenge
  4. Tríptico
  5. Santa Maria (del Buen Ayre)
  6. Una Música Brutal
  7. El Capitalismo Foráneo
  8. Last Tango in Paris
  9. La del Ruso
  10. Vuelvo al Sur 






martedì

A kör bezárul, il cerchio si chiude -











C'è come un dolore nella stanza




Amelia Rosselli


da "Documento" (1966-1973)

 
C'è come un dolore nella stanza, ed
è superato in parte: ma vince il peso
degli oggetti, il loro significare
peso e perdita.

C'è come un rosso nell'albero, ma è
l'arancione della base della lampada
comprata in luoghi che non voglio ricordare
perché anch'essi pesano.

Come nulla posso sapere della tua fame
precise nel volere
sono le stilizzate fontane
può ben situarsi un rovescio d'un destino
di uomini separati per obliquo rumore. 










giovedì

self







Ian Ahmedov - Longa Vita Brevis





Alla terra materna #





"Scinninu a la pirrera". Una poesia di Alessio Di Giovanni (Cianciana 1872 - Palermo 1946)




Scinninu a la pirrera e ognunu mmanu
porta la so lumera pi la via,
ca no pi iddi, pi l’erbi di lu chianu
luci lu suli biunnu, a la campìa...
-
Scinninu muti, e quannu amman’ammanu
scumpariscinu ‘nfunnu a la scurìa,
e si sentinu persi, chianu chianu
preganu a San Giseppi e a Maria…
-
Ma ddoppu, accuminciannu a travagghiari,
gridanu, gastimiannu a la canina,
ca lu stessu Signuri l’abbannuna…
-
Oh! Putissiru allura abbannunari
dda vita ‘nfami, dda vita assassina,
comu l’armali, ‘nfunnu a li vadduna!
-


Scendono alla miniera e ognuno in mano/ porta il suo lucignolo per la via,/ ché non per loro, per le erbe della pianura/ risplende il biondo sole alla campagna…/ Scendono muti e quando, a mano a mano,/ scompaiono nel fondo dell’oscurità,/ e si sentono perduti, piano piano/ pregano San Giuseppe e Maria…/ Ma dopo, cominciando a lavorare,/ gridano, bestemmiando come cani,/ che lo stesso Signore li abbandona…/ oh! Potessero allora abbandonare/ quella vita infame, quella vita assassina,/ come gli animali, in fondo agli abissi!
---

"Di questa galera che è la zolfara, il poeta che più realmente e intimamente ne abbia vissuto il travaglio, la tragedia, è senza dubbio Alessio Di Giovanni" (Leonardo Sciascia, La zolfara in La corda pazza, Einaudi, 1970)











giovedì

Cristo si è fermato a Eboli




I fratelli, 1953.



Incipit 

Sono passati molti anni, pieni di guerra, e di quello che si usa chiamare la Storia. Spinto qua e là alla ventura, non ho potuto finora mantenere la promessa fatta, lasciandoli, ai miei contadini, di tornare fra loro, e non so davvero se e quando potrò mai mantenerla. Ma, chiuso in una stanza, e in un mondo chiuso, mi è grato riandare con la memoria a quell'altro mondo, serrato nel dolore e negli usi, negato alla Storia e allo Stato, eternamente paziente; a quella mia terra senza conforto e dolcezza, dove il contadino vive, nella miseria e nella lontananza, la sua immobile civiltà, su un suolo arido, nella presenza della morte.

– Noi non siamo cristiani, – essi dicono, – Cristo si è fermato a Eboli –. Cristiano vuol dire, nel loro linguaggio, uomo: e la frase proverbiale che ho sentito tante volte ripetere, nelle loro bocche non è forse nulla piú che l'espressione di uno sconsolato complesso di inferiorità. Noi non siamo cristiani, non siamo uomini, non siamo considerati come uomini, ma bestie, bestie da soma, e ancora meno che le bestie, i fruschi, i frusculicchi, che vivono la loro libera vita diabolica o angelica, perché noi dobbiamo invece subire il mondo dei cristiani, che sono di là dall'orizzonte, e sopportarne il peso e il confronto. Ma la frase ha un senso molto piú profondo, che, come sempre, nei modi simbolici, è quello letterale. Cristo si è davvero fermato a Eboli, dove la strada e il treno abbandonano la costa di Salerno e il mare, e si addentrano nelle desolate terre di Lucania. Cristo non è mai arrivato qui, né vi è arrivato il tempo, né l'anima individuale, né la speranza, né il legame tra le cause e gli effetti, la ragione e la Storia. Cristo non è arrivato, come non erano arrivati i romani, che presidiavano le grandi strade e non entravano fra i monti e nelle foreste, né i greci, che fiorivano sul mare di Metaponto e di Sibari: nessuno degli arditi uomini di occidente ha portato quaggiú il suo senso del tempo che si muove, né la sua teocrazia statale, né la sua perenne attività che cresce su se stessa. Nessuno ha toccato questa terra se non come un conquistatore o un nemico o un visitatore incomprensivo. Le stagioni scorrono sulla fatica contadina, oggi come tremila anni prima di Cristo: nessun messaggio umano o divino si è rivolto a questa povertà refrattaria. Parliamo un diverso linguaggio: la nostra lingua è qui incomprensibile. I grandi viaggiatori non sono andati di là dai confini del proprio mondo; e hanno percorso i sentieri della propria anima e quelli del bene e del male, della moralità e della redenzione. Cristo è sceso nell'inferno sotterraneo del moralismo ebraico per romperne le porte nel tempo e sigillarle nell'eternità. Ma in questa terra oscura, senza peccato e senza redenzione, dove il male non è morale, ma è un dolore terrestre, che sta per sempre nelle cose, Cristo non è disceso. Cristo si è fermato a Eboli.








martedì

[ Il sintagma perfetto ]


Il lato politicamente scorretto di Ernest Hemingway | Il Primato Nazionale

LIBRAI

martedì 18 dicembre 2012

 (a R, angelo custode)


     Quella di Sansepolcro aveva fatto l’ostetrica per tutta la vita. Negli anni Settanta, a Firenze, aveva fondato un ambulatorio femminista, che promuoveva il parto in casa e aiutava le donne a praticarlo. Poi si era sposata, aveva avuto tre figli, si era trasferita lì con la famiglia. Anni dopo il marito e i figli se n’erano andati, lei invece aveva aperto una libreria con alcune ragazze più giovani. Mi disse che di quelle ragazze si sentiva un po’ la mamma. Che l’ostetrica e la libraia non le sembravano mestieri poi tanto diversi. Dei suoi figli parlava con orgoglio: uno stava cominciando a esercitare come medico pediatra, l’altra studiava diritto internazionale a Londra, il terzo aveva coltivato il sogno di fare il musicista e inseguendolo si era un po’ perduto.

     Quello di Foggia mi raccontò degli anni di Zeman, e del trio delle meraviglie Baiano-Signori-Rambaudi. Eravamo in macchina dall’aeroporto di Bari, cento chilometri sotto il diluvio. Mi disse che, per lui, quella era l’epoca del sogno, un tempo che non sai più se sia esistito davvero o l’abbia inventato tu dormendo; perché era un bambino, allora, e amava il calcio nel modo dei bambini, studiando a memoria i tabellini delle partite e gli albi d’oro. Ancora adesso ricordava ogni risultato, ogni formazione, ogni gol. L’ultimo era stato quello subito in casa con il Napoli, che aveva negato al Foggia l’ingresso in coppa Uefa e gli aveva spezzato il cuore. Tre rigori ci dovevano dare, mi disse scuotendo la testa. Poi si consolò raccontandomi di Kolivanov, genio incompreso.

     Quello di Fermo era un anarchico, e in un angolo teneva due poltrone e po’ di vino. Gli piaceva offrire un bicchiere alla gente che si sedeva lì a sfogliare un libro. Era esuberante, litigioso e dedito ai vizi come capita spesso agli anarchici, non so ai librai. Nella sua stessa via, solo cinquanta metri più in là, gli avevano aperto una libreria di catena, e lui si rifiutava di passarci davanti: quando doveva andare in piazza prendeva un vicolo laterale e faceva un lungo giro. Si arrabbiò perché all’incontro vennero solo cinque persone. “Città di merda”, sibilò tra i denti, ma più tardi ammise che non l’avrebbe mai lasciata. Bevemmo il suo Rosso Piceno per tutta la sera, la mattina doveva accompagnarmi in stazione molto presto; lo salutai di fretta, col vino che mi picchiava in testa, sapendo che poi di quella fretta mi sarei pentito, correndo fuori dalla sua macchina per non perdere il treno.

     Quello di Palermo mi portò al ristorante e voleva farmi assaggiare tutto. Siccome non potevo ordinare dieci piatti diversi, ognuno dei suoi amici ne ordinò uno e me ne offrì un boccone. Al tavolo di fronte c’erano tre camionisti svizzeri ubriachi: chiesero se stessimo celebrando un addio al celibato, forse perchè ci vedevano allegri o forse nella speranza di unirsi a noi. Il libraio disse di no, che ci eravamo appena conosciuti e stavamo festeggiando il nostro incontro. I camionisti capirono perfettamente. Per via dell’accento il libraio chiese se fossero tedeschi, e loro si offesero a morte. Dissero no, noi siamo normali. Avevano appena ordinato un giro di birre dopo il caffè, ma della normalità ognuno ha la sua idea, e non ci parve il caso di discuterne. Facemmo la pace brindando all’internazionalismo e all’amicizia tra i popoli.

     Quello di Venezia aveva cominciato con una libreria di libri usati. Sgomberava le biblioteche dei morti, che i figli si vendevano per pochi soldi e certe volte senza sapere di dar via rarità preziose. Mi raccontò che a Venezia le cantine non esistono, esistono i solai; ed è lo stesso un problema tenere i libri all’asciutto. A un certo punto, oltre che ai libri usati, si era appassionato ai piccoli editori, e aveva cominciato a vendere anche loro. Di quelli grandi non ne voleva sapere. Entrava qualcuno a chiedergli un Einaudi, un Mondadori, e lui diceva mi spiace, non ce l’abbiamo. Si può ordinare?, domandavano quelli. No, diceva lui, non si può ordinare. Quella sera mi aveva fatto una sorpresa, esponendo in vetrina tutti i libri che avevo citato nel mio.

     Quello di Ivrea mi raccontò di Adriano Olivetti, che si era messo in testa di far leggere gli operai. Per questo, mi disse, a Ivrea c’è il più alto rapporto librerie-abitanti, lo sapevo? Risposi che non lo sapevo. Anche lui prima faceva un altro lavoro, come tutti gli altri. Il venditore di qualcosa che si vendeva meglio dei libri. Disse che però a un certo punto si era accorto di non stare bene, e allora si era licenziato, usando la liquidazione per aprire la libreria; con cui non guadagnava quasi niente, se non la felicità che prima gli sfuggiva.

     Quello di Pietrasanta voleva vendere anche gli e-book. Il suo amico cercava di spiegargli che non aveva senso, ma per lui un senso ce l’aveva eccome: uno viene qui con il suo coso, mi disse, il suo e-reader, mi chiede un libro e io glielo scarico dalla come si chiama, dalla chiavetta no? Tutti i librai discutevano di e-book fingendo di non preoccuparsene affatto, come si snobba l’annuncio di una catastrofe, la fine del mondo. Tutti disprezzavano i best-seller, e in particolare le loro sfumature, ma con i libri brutti ci campavano, mi dissero, a vendere solo libri belli non si arriva a fine mese. Quello di Torino per i libri brutti si era inventato questa cosa: aveva preso un tavolino e gli aveva segato una gamba a metà. I libri brutti li vendeva anche lui, ma li teneva lì sotto a reggere il tavolo.

     Per qualche motivo le libraie erano spesso in due e piuttosto belle, i librai quasi sempre trasandati e soli. Quello di Bari faceva eccezione: secondo me assomigliava a Klaus Kinski, ma secondo i suoi amici a David Bowie, e secondo il cameriere cocainomane a Andy Warhol. Non riuscivamo a metterci d’accordo. La libreria l’aveva aperta da un mese: era specializzata in musica, fumetti, cinema, piccoli editori punk. Era un punk anche lui, magrissimo, capelli biondi ossigenati, abiti attillati e neri, un sorriso che ti faceva venir voglia di sorridere anche te. Le libraie di solito erano gentili, però dopo l’incontro tiravano giù la serranda e mi davano la buonanotte; i librai invece mi accompagnavano al ristorante e al bar. Parlavamo di calcio e letteratura. A volte pure di donne. Sentivo di capirli meglio, e loro capivano me. Le libraie mi facevano trovare sul tavolo un bicchiere d’acqua; i librai mi guardavano in faccia e mettevano il vino.




LA PRATICA VIENE PRIMA DELLA TEORIA 


lunedì 22 ottobre 2012

di Sandro Bonvissuto
 
La mia regola, una regola che vale, del resto, per tutte le cose della vita, è questa: togliere invece che aggiungere. Da un punto di vista stilistico perseguo proprio la sottrazione e non mi stancherò mai di ripeterlo, perché il sintagma perfetto è il massimo del senso e il minimo delle parole necessarie a esprimerlo. Non credo serva accumulare nella scrittura, poiché la forza dell’autore è quella di cogliere un pensiero in modo dritto, giusto e asciutto, il resto è un’arcadia. La sfida di questo mio Dentro è stata riuscire a consegnare un’opera che rispettasse questa regola del “togliere”.
Alcuni mi hanno contestato nei racconti l’utilizzo di una forma gnomica, cioè il ricorrere a sentenze brevi. Un giorno la scrittrice Evelina Santangelo, la mia editor alla sintassi, mi ha detto: “Attenzione, stai scrivendo un libro paratattico!”. Proprio per questo pericolo, sebbene il libro sia deprivato del mio io, ho cercato di concentrarmi sull’intimità autentica per poi giungere all’universale. Lo scrittore deve arrivare al punto più piccolo, più intimo possibile, a quel passaggio angusto, effimero in cui le impressioni e i fenomeni toccano l’io: solo a partire da quel punto, le impressioni si allargano, si espandono, esplodono nella loro dimensione universale. L’onestà della percezione e della sensazione è fondamentale perché lo scrittore possa recuperare il momento, l’istante che vuole narrare. È proprio questa onestà, questa pulizia dello sguardo, che può avvicinare uno scrittore al lettore, che gli fa guadagnare credibilità ai suoi occhi, che permette, infine, una sovrapposizione dell’esperienza dell’uno e dell’altro. L’onestà della percezione fa sì che il rapporto con il lettore possa diventare silenzioso: perché entrambi, d’un tratto, già sappiamo di cosa si parla.

(Un’intervista di Nicola Ruganti e Nicola Villa, uscita sul numero 11 della rivista Gli Asini, a Sandro Bonvissuto.)